Mai più. Mai più colli «sgranocchiati fino alla cima», «smangiucchiati come torsoli di mela», oppure «tagliati dalla spada di Rinaldo», «ridotti a petraie senza un filo d'erba». Nell'ottobre di quest'anno 2011 ha chiuso l'ultima cava grande dei Colli Euganei, la Piombà del cementiere Zillo ad Este. Esattamente quarant'anni dopo l'approvazione, il 24 novembre 1971, della legge 1097 sulla regolamentazione delle attività estrattive. Alla fin fine c'è poco da brindare, ma da ricordare sì: e lo si farà domani a Rovolon, con un convegno nel quale la storia delle battaglie per questa legge raccoglie voci importanti a raccontarla. Arrivando fino all'oggi, e adoperando quell'espressione, “cultura ambientale”, che quarant'anni fa non esisteva. Non è sempre bello che il tempo passi, minimo si invecchia. Ma qualche volta succede che passi per qualcosa, che la storia magari lentamente torni ad essere maestra di vita. Questo è uno di quei casi.
Una vicenda in cui la ragione ha vinto sulla forza, sul denaro, sull'ignoranza, sugli interessi e sulla strafottenza e il dispregio. Ma possiamo dirlo adesso: perché, negli anni sessanta e settanta, denaro, interessi, strafottenza e dispregio non erano considerati tali, ma sane attività imprenditoriali, giusta iniziativa economica che dava lavoro. Semplicemente, non c'era cultura ambientale e la tutela era parola scritta sulla carta, triturata dal balzo del boom economico: che voleva dire costruire, costruire e ancora costruire, e quindi migliaia di tonnellate di materiale per l'edilizia. Erano lì, sotto gli occhi di tutti, anzi appena sopra: i colli Euganei sembravano fatti apposta per essere presi. Cosa che avvenne per decenni, senza regole. Bastava, quando veniva fatta, una comunicazione al comune del luogo, e subito le ruspe mangiavano la carne della terra. E, mica per fare i poeti, dove prima si sentiva il rincorrersi dei cinguettii, solo il ra-ta-ta delle perforatrici, i boati delle esplosioni, il rumore sordo e continuo dei motori dei camion. Se ci aggiungete la perenne nuvola di polvere, sembrava un inferno. Che però dava da mangiare a qualche famiglia: non molte, in termini numerici: le cave davano lavoro, a fine '68, a circa duecento operai. In compenso rimpinguavano le tasche di un manipolo di cavatori, che non si potevano nemmeno, allora, definire spregiudicati o insolenti: erano liberi di fare quel che volevano, l'unica normativa vigente era la legge mineraria del 1927, che non prescriveva nulla ma concedeva tutto.
Non sembri una ricostruzione di parte. Per convincersene, basta guardare le purtroppo molte fotografie della fine degli anni sessanta. I colli sono violentati, da una violenza quasi irreversibile, sbranati da un orco mai sazio. Un opuscolo del 1970, con le pagine già un po' ingiallite, contiene poche parole e molte immagini. Fanno ancora male al cuore. Oggi, qualsiasi frettoloso osservatore direbbe: ma come è possibile? E' stato possibile, per venti lunghi anni. Colle Lispida mangiato per un terzo, Rivaldolmo che biancheggia, il Monte Cero a chiazze, Monte Ricco sventrato, il colle di Berta e Monte Oliveto (pensate al nome!) sbriciolati, Zovon devastata, il Monte Murale letteralmente spianato. E avanti, fremendo: Vallarega, la valle tra Cinto e Faedo, i monti Croce, Ciminella, Lonzina, il Rusta e il Gemola, la valle di san Giorgio..... Gli Euganei amenissimi disseminati di tratti improvvisi di bianche scogliere di Dover, così innaturali ma ovunque: tanto, tantissimo, da stravolgere un paesaggio non solo custode di riferimenti storici (Arquà, i monasteri, i borghi, le case rurali sparse) ma semplicemente bello. Niente, fino al 1971, ha fermato i cavatori. Poi la coscienza prende piede. Piano e poco, all'inizio. Nel 1961 viene fondata la sezione padovana di Italia Nostra. Nel 1962 viene istituito tra i comuni della zona il Consorzio per la valorizzazione dei Colli Euganei. Poi ecco che a Battaglia si forma un comitato spontaneo, per difendere il monte Croci: di lì, la sua espansione in ogni paese toccato dagli sfregi. Si forma il Comitato Difesa Colli.
A raccontarlo ci si mette una riga, ma sono stati anni e anni di lavoro sommerso, di iniziative osteggiate, di sconfitte e sconforto, gruppi di poche persone che via via aggregavano e convincevano. Una protesta senza strumenti, all'inizio. Come fare? Si comincia con i vincoli. Ne vengono posti una quarantina, ma l'orco continua a mangiare. Vengono fermati tentativi clamorosi: come quello dell'Italcementi che voleva impiantare un gigantesco nastro trasportatore dal monte a Monselice per un rifornimento continuo allo stabilimento. Ricorda Gianni Sandon, una delle anime inesauste del Comitato: «Era una lotta contro il tempo, una rincorsa continua. Si cervava di mettere un vincolo e i cavatori arrivavano prima, aprivano altri cantieri». Buchi e ferite, e strade per raggiungerli, e sistemi da Attila. Perché non si cava solo la trachite pregiata, quella è solo una parte: serve il brecciame, il materiale da far cemento o da annegamento, che è la stragrande maggioranza dell'estratto. Si prende a mani basse, con un'escavazione brutale che le nuove macchine consentono. Il Comitato capisce che ci vuole una legge, una cosa quasi impossibile da pensare.
La facciamo breve: Giuseppe Romanato, deputato democristiano di Rovigo, presidente della Commissione pubblica Istruzione della Camera, ascolta e fa. Il 30 ottobre 1970 la commissione arriva per un sopralluogo nell'area dei colli, e decide di presentare una proposta di legge. Lo fa il 4 gennaio 1971: primo firmatario Romanato, secondo Carlo Fracanzani, e poi tutti deputati padovani: 28 firme in totale. Il cammino della legge è veloce ma impervio: passa in commissione istruzione, poi va in commissione industria, e lì sono sorci verdi. Tutti i firmatari fanno marcia indietro, lo stesso Fracanzani (che domani sarà al convegno) sembra meno convinto, il comunista Busetto spiega che l'opposizione si è astenuta «per non ostacolare». L'unico che non molla è Romanato: convinto fino in fondo, «ora o mai più», perché c'era aria di elezioni anticipate. La legge viene approvata il 24 novembre di quell'anno: prevede che entro il 1° aprile 1972 la metà delle cave chiuda, e che quelle tenute aperte (soprattutto quelle di trachite da taglio) vengano regolamentate. E' una vittoria, ma Pirro è in agguato. Intanto, nei mesi precedenti, ne erano successe di tutti i colori: i cavatori fanno lobby, fanno marce a Padova, riempiono Prato della Valle. Sui colli si arriva a sparare, gli operai temono per i loro posti, i sindacati li difendono ma in realtà non sanno che pesci pigliare, se nel 1969 Cgil, Cisl e Uil in un documento condannano «la politica di rapina» dei cavatori. L'architetto Piero Brombin porta la sua utopia sui colli a difesa dell'ambiente, con performance poetico-architettoniche in anticipo sui tempi. Ma insomma, la legge c'è. Non basta. Due cavatori estratti (!) a sorte continuano apposta a scavare dopo il 1° aprile, per farsi denunciare. Trovano due pretori che accolgono l'eccezione di incostituzionalità della legge: la lobby è forte, dopo aver venduto i colli vende cara la pelle. Alla fine, come si diceva, poco a poco le cave chiudono, ci vogliono anni. L'ultima pochi giorni fa, a quarant'anni di distanza. Ma non è finita: restano, come forse è giusto, pochi anditi attivi per estrarre la trachite pregiata, ogni tanto bisogna sostituire i masegni a Venezia. Ma restano i cementifici, con una concentrazione mai vista altrove: tre nella stessa zona, per una produzione che è il 60 per cento dell'intero Veneto. Adesso sbancano i Berici... Ma, spiega l'indomito Gianni Sandon, è da ripensare la cultura dello sviluppo. L'Italia produce 600 chili di cemento per abitante (il Veneto, 700): perfino la Spagna del dissennato boom edilizio è sotto di noi. Francia e Germania diminuiscono la produzione, oggi sono a quota 300 chili per abitante. I colli Euganei ci hanno messo quarant'anni a fermare la lebbra, ora è il tempo di sanare le ferite. Non ci penseranno i cavatori, per fortuna ci penserà la natura, che va oltre tutti noi.
Paolo Coltro
Il Mattino di Padova
VENERDÌ, 25 NOVEMBRE 2011