Riceviamo e volentieri pubblichiamo un'interessante riflessione sul 70° anniversario della legge urbanistica italiana da
Natalino Boris Furlan, architetto e segretario del PD di Este.
Tra qualche giorno la legge urbanistica italiana compie settant’anni (entrò in vigore il 16 ottobre 1942 con il numero 1150). L’Europa ed il mondo erano infiammati dal secondo conflitto mondiale. La dittatura fascista “comandava” da 20 anni e a Roma era prossima l’inaugurazione della grande esposizione universale dell’E42. Settant’anni pesano ed i segni sono evidentissimi, malgrado ciò la legge resterà in vita ancora a lungo.Ha resistito alla caduta del fascismo, alla costituzione repubblicana, a tentati colpi di stato negli anni ‘60, all’istituzione delle regioni, alle modifiche costituzionali del 2001, ai progetti di legge suggeriti da “mille appetiti speculativi”.
Nel 1962 (altro anniversario di quest’anno) Fiorentino Sullo, un giovane ministro democristiano, tentò di migliorare la legge presentando una proposta di riforma molto avanzata che limitava l’avidità degli immobiliaristi. Sconfessato dalla segreteria nazionale del suo stesso partito venne messo in disparte e la norma rimase quella originaria.
Nel 1966 Giacomo Mancini e poi, nel 1977, Pietro Bucalossi introdussero alcune modifiche importanti, senza per altro modificarne l’impianto strutturale.
Mentre le spinte innovative del dopo guerra erano tese ad un miglioramento, con la conclusione degli anni ’70, si è affermata una tendenza a ridurre, modificare, contenere i compiti che la legge 1150 affidava all’amministrazione pubblica.
Negli ultimi 30 anni, le modiche proposte sono state e sono di segno regressivo, volte cioè a peggiorare la legge, a depotenziarla, a renderla più che mai funzionale agli interessi privati e speculativi.
Nascondendosi dietro le parole “sburocratizzazione ed efficienza” si sono introdotte procedure “tecniche” che hanno sburocratizzato molto poco, ma in compenso hanno messo sullo stesso piano giuridico l’interesse pubblico e quello privato.
La disordinata ed eccessiva costruzione di milioni di metri quadrati di aree urbanizzate - indifferenti a qualsiasi forma urbana - e di milioni di metri cubi di costruzioni, in gran parte senza alcuna qualità architettonica (e in molti casi anche senza qualità tecnica), sta mostrando tutti i propri limiti.
Per decenni una sparuta pattuglia di persone ed associazioni ha sottolineato il problema che si stava addensando.
Ora, la grave crisi economico-finanziaria ha svelato, agli occhi di chiunque, che la sbornia edificatoria degli ultimi 20 anni, ha prodotto, solamente, uno sviluppo artificiale.
Aver disseminato case e capannoni ovunque, senza seguire alcun criterio che non fosse quello della domanda (reale o indotta, questo è un altro aspetto da verificare), ci ha lasciato in eredità un paesaggio deturpato.
I modelli di crescita urbana basati sul consumo costante del suolo e di risorse economiche generate attraverso l’indebitamento diffuso sono giunti ad esaurimento.
Ora si tratta di trovare le soluzioni migliori per rigenerare le nostre città all’insegna della sostenibilità.
Tra le molteplici indicazioni che si possono dare, principalmente due debbono essere recuperate:
1) ridare centralità alla pianificazione urbanistica e territoriale (che deve essere pubblica e forte) per scongiurare l’ulteriore deriva del libero mercato (che non è mai stato ne libero ne mercato, ma semplice appropriazione privata di beni e valori pubblici);
2) la difesa dei beni pubblici territoriali ed economici: paesaggio, acqua pubblica, recupero del significato di “comunità” e del concetto di “bene comune”.
L’auspicio è che si recuperi il “diritto alla città", di cui si era persa traccia.
Tornare a riflettere sul tipo di città in cui vogliamo vivere, sul tipo di persone che vogliamo essere, sui rapporti sociali a cui aspiriamo e sulle relazioni che intendiamo avere con l’ambiente.
Non più, solo, diritto individuale di accesso alle risorse, ma diritto collettivo, inteso come potere della comunità, per governare il processo di urbanizzazione.
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