8 marzo 2013

Il partito degli affari per gli appalti

C’è un partito degli affari che controlla gli appalti pubblici indirizzandoli verso i soliti noti? La questione tiene banco per tutto il decennio 2000-2010. Ci sono gli affari, questo è certo. E sono tanti. Un mare di soldi pubblici scorre nel Veneto: solo dal 2006 al 2009 si stima che il mercato delle opere pubbliche regionali valga 2,5 miliardi di euro. Escludendo il Mose, finanziato dallo Stato per oltre 4 miliardi di euro. Escludendo il Passante di Mestre, finanziato a metà fra Stato e Regione, partito con un costo di 650 milioni e arrivato al saldo con 986,4 più Iva. Escluse le Ferrovie, che spendono 2 miliardi per l’Alta Velocità tra Padova e Mestre, unico tratto realizzato; per i collegamenti Verona-Padova e Venezia-Friuli, di là da venire, saranno necessari altri 10 miliardi. Escludendo strade, autostrade, porti e aeroporti: solo Veneto Strade spa, che ha ereditato patrimonio e competenze dall’Anas, ha da spendere nei tre anni un miliardo di euro. In questo mare di soldi pubblici navigano pochi operatori privati. Tutti gli altri stanno sulle rive a guardare. I vincitori delle gare sono un numero ristretto di aziende che da sole o in associazione di impresa (Ati) si assicurano le commesse con una frequenza sistematica. Gli appalti variano ma i nomi si ripetono.
Contano indubbiamente le capacità, bisognerà mettere nel conto le versioni denigratorie prodotte dall’invidia per il successo altrui. Ma il fatto è sotto gli occhi di tutti: c’è un monopolio che non si spiega con assenza di concorrenza. Nasce da qui il sospetto che il vantaggio acquisito sia frutto non di merito ma di favore. Un privilegio di pochi costruito con i soldi di tutti. Chi parla per primo di un partito degli affari è Massimo Carraro che nel giugno del 2000, da parlamentare europeo dei Ds, pone la questione del finanziamento della campagna elettorale vinta dal presidente Giancarlo Galan contro Massimo Cacciari, candidato del centrosinistra. Andando alla ricerca di chi ha sborsato i soldi per la campagna elettorale di Galan, Massimo Carraro cita Enrico Marchi e Giuseppe Stefanel, imprenditori impegnati in una grossa operazione immobiliare a Padova Est, la cosiddetta lottizzazione Ikea. Chiede loro di chiarire pubblicamente «se siano stati, magari a mezzo di loro società, generosi finanziatori della campagna elettorale di Forza Italia». Si becca una querela, non dai due ma da Giancarlo Galan, benché il presidente abbia appena confidato in una cena con gli eletti di Forza Italia – sui colli Berici, ad Arcugnano, la settimana prima – di aver speso 3 miliardi di lire raccolti anche attraverso sostenitori. A corredo della denuncia, l’avvocato di Galan produce una montagna di documenti sulla base dei quali, sorpresa, il pm padovano Antonino Cappelleri non indaga Massimo Carraro bensì il sindaco di Padova Giustina Mistrello Destro e l’assessore Tommaso Riccoboni, entrambi di Forza Italia. Il contraccolpo è notevole, la procura si trova al centro di reazioni eccellenti. L’indagine prosegue ma non emergono elementi di rilevanza penale. Cappelleri passa all’ufficio di sorveglianza e il pm Matteo Stuccilli, che gli succede, finisce per archiviare. La lottizzazione non subisce rallentamenti. Nel mercato delle opere pubbliche venete si incontrano ad ogni piè sospinto lo studio di progettazione Altieri, la Mantovani Costruzioni e la Gemmo Impianti. «È un “giro stretto” che funziona a tenaglia e fa man bassa di lavori pubblici, garantendosi gli appalti perfino quando presenta offerte meno vantaggiose dei concorrenti. Questa rete è talmente fitta e potente che chi è fuori rischia di non lavorare più, perché gli appalti hanno scadenze fino a 9 anni, rinnovabili per altri 9. L’armata diventa invincibile adottando la formula del project financing, sperimentata per la prima volta con la costruzione del nuovo Ospedale all’Angelo di Mestre e della Banca degli Occhi, un affare da 254,7 milioni di euro Iva compresa, di cui 134,6 di contributo pubblico e 120,1 anticipati dai privati. Mestre è solo l’assaggio. Dal 2006 in poi il project dilaga. In una lettera al ministro Corrado Passera appena insediato, l’assessore Renato Chisso parla di «investimenti messi in campo per 11 miliardi e 800 milioni di euro di risorse private, a fronte di un intervento pubblico di 1 miliardo di euro, meno del 10 per cento del valore totale». Da notare che la documentazione per un project della dimensione di quelli che seguono ha un costo di centinaia di migliaia di euro. Presentarsi e non vincere, vuol dire subire un salasso. Presentarsi diverse volte senza mai vincere, vuol dire dissanguarsi. La galassia Galan. Questa diramazione tentacolare di cantieri, che asfaltano e cementificano per terra e per mare, è al comando di poche persone. L’ingegner Piergiorgio Baita guida la Mantovani Costruzioni, un’azienda che dà lavoro a 600 persone, 1.300 calcolando l’indotto. Baita è alla seconda vita, la prima è finita con Tangentopoli. Gemmo Impianti e lo Studio Altieri hanno una storia intrecciata. Livio Gemmo, capostipite e fondatore dell’azienda, originario di Asiago ma vissuto a Thiene con i figli Franco e Giorgio, era amico di famiglia dei Sartori. La Lia, nata a San Pietro Valdastico ma trasferitasi a Thiene, è considerata come una zia da Irene Gemmo, figlia di Franco. Lia Sartori va ad abitare a Thiene, sopra lo studio di ingegneria di Vittorio Altieri, che diventa il suo compagno. L’ingegnere, morto prematuramente nel 2003, ha un’attività avviata molto prima dell’arrivo sulla scena di Giancarlo Galan. È cresciuto con i primi presidenti della Regione, Angelo Tomelleri e Carlo Bernini, figure centrali del partito di governo, la Dc, anzi la corrente dorotea della Dc. Come accade ad un altro studio di ingegneria, la Net Engineering di Monselice, titolare Gian Battista Furlan. Tangentopoli impone una brusca frenata a Vittorio: le indagini lo lasciano indenne ma è costretto a cambiare aria per lavorare. Si trasferisce a Roma, estende l’attività anche all’estero. Darà la colpa ai giudici ma soprattutto ai giornalisti, specializzati secondo lui nel fare d’ogni erba un fascio. Finché l’elezione di Galan a presidente del Veneto e il ruolo di primo piano della Lia lo riportano nel Veneto. Nel 2005 Franco Gemmo cede lo stabilimento di Arcugnano ai figli Mauro e Irene, pur conservando la presidenza onoraria dell’azienda. Nel maggio 2006 Galan insedia Irene alla guida di Veneto Sviluppo con un annuncio dei suoi: «È arrivato il momento di fare cose brillanti, adeguate alle sfide dei nostri tempi». In realtà la sfida è al libero mercato, a causa del conflitto di interessi nel quale Irene Gemmo si trova immediatamente catapultata. Nascono screzi anche in azienda. Il programma di Irene nella Veneto Sviluppo – realizzare una multiutility regionale e unificare il sistema fieristico disperso tra le città – non è che la prosecuzione dei tentativi già falliti dal suo predecessore Paolo Sinigaglia. L’esito sarà scontato. In quel momento è già cominciata la parabola discendente di Sinigaglia, il Galan-boy più ruspante e verace. Galan ha puntato tutto sul suo amico-nemico per la pelle, Enrico Marchi, che è in piena metamorfosi professionale: Marchi passa a tutta velocità da finanziere a manager a imprenditore, anzi astro nascente degli aeroporti. Dopo la conquista della Save pensa di ripetere il colpo comprando Aeroporti di Roma. La scalata parte bene, seguendo lo stesso schema usato per la Save, ma sul traguardo Marchi si vede soffiare il pacchetto di maggioranza dai Benetton.

Dal recentissimo libro di Renzo Mazzaro “I padroni del Veneto”, edito da Laterza,  pubblichiamo parte del capitolo “Dove scorrono i soldi”. 

Nessun commento:

Posta un commento

Facci sapere cosa ne pensi...

Cerca nel blog