Il libro di Stella e Rizzo che porta il fortunato titolo “La casta” è del maggio 2007. In un mese raggiunge tre edizioni e rapidamente supera la tiratura record di oltre un milione di copie. Ho sempre sostenuto fin dall’inizio, nelle sedi di partito e del gruppo parlamentare che sarebbe stato un errore grave non comprendere che un libro che entra in un milione di case avrebbe sedimentato un giudizio e non si sarebbe dovuto contare sulla tradizionale memoria corta degli italiani. Si sarebbe dovuto affrontare la questione con coraggio cambiando ciò che si doveva cambiare, difendendo ciò che atteneva alla libertà ed indipendenza della funzione politica.
Non si può dire che lo si sia fatto, particolarmente fino a quest’anno e questo silenzio della politica ha dato origine ad un dibattito confuso, in cui accanto a notizie vere si sono diffuse notizie completamente false, o imprecise, o riferentesi a previlegi aboliti.
E’ perfettamente comprensibile che un elettore si indigni se apprende dalla rete che i parlamentari si sarebbero aumentati in silenzio lo stipendio qualche settimana fa e se vengono descritti una serie di previlegi principeschi. Notizia palesemente falsa e non ci vorrebbe un grande spirito critico per comprendere che se fosse vera la notizia sarebbe stata di prima pagina. Ma intanto circola. E’ naturale e giustificata l’indignazione se una persona credibile come la Littizzetto riferisce in prima serata a “Che tempo che fa” che i parlamentari godono di una assicurazione sanitaria integrativa che costa oltre 10 milioni di euro ai contribuenti. Peccato che la notizia fosse falsa: i parlamentari hanno una assicurazione privata obbligatoria, che vive esclusivamente dei contributi degli interessati senza un solo euro di contributo a carico dello stato. Bastava poco per verificarlo prima di diffondere notizie inesatte…
E tuttavia proprio l’esistenza di un dibattito confuso che è espressione di una larga disistima nei confronti della classe politica richiede una coraggiosa iniziativa. Per cambiare. Per rendere anche la questione dei costi della politica più comprensibile. Mi sembrano che le parole più appropriate dette ultimamente siano quelle del card. Bagnasco all’ormai celeberrimo Consiglio permanente della CEI: la politica ha “un dovere specifico di trasparenza ed economicità, per rispettare i cittadini e non umiliare i poveri”. Su questa linea bisogna muoversi.
Sotto la voce generica “costi della politica” possiamo distinguere tra aspetti che sono tra di loro diversi e richiedono risposte diverse.
Ci sono innanzitutto quelli che possiamo chiamare costi della democrazia. I costi per il mantenimento di strumenti di partecipazione, di orientamento, di conoscenza da parte dei cittadini. Riguardano l’organizzazione dei partiti, gli strumenti di informazione legati alla propaganda politica, le campagne elettorali per le elezioni amministrative e politiche, per i referendum, ecc.
Ci sono poi i costi dell’amministrazione pubblica ed in particolare della rappresentanza territoriale: come vengono prestati i servizi ai cittadini, attraverso quale forme di controllo pubblico e ancora di possibile partecipazione degli elettori.
Infine i costi diretti del personale politico, in particolare di quelli a tempo pieno: quanto è giusto pagare un parlamentare o un consigliere regionale.
E’ giusto perciò esaminare questi tre diversi aspetti, con delle avvertenze preliminari.
Prima cosa: serve la credibilità
Prima dei costi della politica viene la sua credibilità. Ed è esattamente la credibilità depressa che sposta l’attenzione del pubblico sui costi: mi sembra che non servi, perché dovrei pagarti?
C’è una enorme velocità di cambiamento che entra direttamente nella vita delle persone, le cambia e le rimodella, e la politica appare lenta e in ritardo, concentrata spesso su temi che appaiono lontani. Più ampio è veloce è il cambiamento più la veduta sembra farsi corta, ripiegandosi sul presente. La difficoltà della politica ad offrire una direzione di marcia, l’interpretazione del movimento della storia.
Se leggiamo gli atti dei congressi dei grandi partiti nel dopoguerra, vediamo le immagini di comizi e di campagne elettorali considerate decisive per la propria vita dagli elettori avvertiamo che la politica veniva percepita come lo strumento per cambiare anche la propria vita. Per conquistare una maggiore libertà, per raggiungere un più esteso benessere. Uno strumento per le classi popolari per affiancare al potere del denaro, della cultura, il potere della partecipazione popolare, per cambiare il corso delle cose, per sentirsi rappresentati nei propri interessi, per fare insomma la Storia.
Non che mancasse anche il populismo nella politica e la violenza del linguaggio. Restarono celebri le espressioni di Togliatti nella campagna elettorale del ’48 sul fatto che si fosse fatto risuolare le scarpe per meglio prendere a calci l’austriaco cancelliere, che era De Gasperi. Ma tutto poi veniva ricondotto dentro il confine della comune patria costituzionale e dentro una competizione aspra ma virtuosa per il miglioramento delle condizioni popolari. Così si potevano vincere le elezioni.
E perciò a nessuno (tranne qualche foglietto scandalistico del tempo) veniva in mente di chiedersi quanto guadagnasse Togliatti, o Moro, o Berlinguer. Pietro Ingrao, primo presidente della Camera dei Deputati in rappresentanza dell’opposizione, ha finito di fare il parlamentare nel 1992, entrato in parlamento nel 1948. Gode di ottima salute e ha raggiunto la bella età di 95 anni e può godere di un pingue vitalizio. Lo stesso possiamo dire di Tina Anselmi: gravemente malata ha potuto comunque sopportare una malattia invalidante anche grazie al vitalizio che continua a percepire. Non penso che l’opinione pubblica avverte ciò come un previlegio. Piuttosto come un segno di gratitudine per i servizi resi in modo inequivocabile alla democrazia italiana. Darà fastidio invece che la signora Pivetti faccia la soubrette avendo ancora a disposizione vita natural durante mezzi, auto, personale, stanze, come ex Presidente della camera (ma per fortuna l’ultimo manovra ha fatto cessare questo scandalo).
Poca credibilità, e poi la disonestà che emerge ancora in modo diffuso, la carriera senza merito, o con meriti che non c’entrano per nulla con il servizio al cittadino ed il possesso di competenze per svolgere bene questo servizio, quei comportamenti “tristi e vacui” (sempre il card. Bagnasco) che screditano la funzione politica ai massimi livelli.
Dove porta l’indignazione?
Una seconda avvertenza. Cosa produce l’indignazione. Se non è sorretta da dati certi, da una visione alternativa, dalla volontà di cambiare in meglio la politica, lo strumento del governo del bene comune?
Perché l’indignazione non basta. Ne abbiamo un esempio sotto gli occhi. L’indignazione provocata da Mani Pulite. Forse che non c’era motivo di indignarsi? Certamente sì, per la diffusione di una corruttela e di una alleanza perversa tra cattiva politica e cattiva economia sulle spalle dei cittadini. Ci fu naturalmente l’uso mediatico dell’indignazione da parte di stampa e televisione, per motivi nobili o meno nobili (volgarmente di bottega, o per motivi politici (la catena berlusconiana che preparava la “discesa in campo”): Ci fu l’uso politico, in particolare la Lega con il cappio in parlamento e i fascisti con il lancio di monetine a Craxi. Ci fu anche un uso “etico” da parte di alcuni settori della magistratura: l’idea che l’enormità della corruzione disvelata richiedesse un esplicito appoggio popolare per venirne a capo.
Sappiamo quale fu l’esito di questa ondata di indignazione. Non fu la Repubblica degli Onesti. Fu l’incubazione dell’orrido quindicennio berlusconiano, con la caduta di ogni etica pubblica, con la proclamazione della furbizia, dell’abuso dei beni pubblici, dell’appropriazione di settori dello Stato. Con il consenso popolare molto largo.
E oggi? Questo rendere tutti eguali, onesti o disonesti, chi lavora e chi non fa nulla, chi adempie il proprio incarico con disciplina ed onore (secondo il precetto costituzionale) e chi lo disonora è naturalmente stato sempre la premessa per torsioni autoritarie: dal cretinismo parlamentare di Lenin, all’aula sorda e grigia di Mussolini. Chi ci guadagna sono i delinquenti: nel mucchio si vedono di meno. E c’è una responsabilità grave dei mezzi di informazione. Fa naturalmente notizia il parlamentare che ruba o che va a prostitute. Avrà nel bene e nel male l’onore della cronaca, l’accesso ai talk show. Ma come può apprendere il cittadino il lavoro parlamentare nei suoi aspetti migliori se questo non interessa ai grandi giornalisti? Non interessa neppure ai giornali di sinistra, piuttosto inclini allo scandalismo, e al circuito amicale delle proprie conoscenze.
Così va il mondo e non è un motivo per desistere. Anzi, dalla consapevolezza di questi rischi occorre ricavare un impegno ancora più fermo e rigoroso per ridefinire le modalità del servizio politico.
Il costo dei partiti
Ci sono i partiti. I cittadini contribuiscono attraverso le tasse con i rimborsi per le campagne elettorali e per il sostegno alla stampa di partito, e non solo.
Nell’ultimo anno i partiti hanno incassato per i rimborsi elettorali 189 milioni di euro, circa 3 euro per abitante. E’ tanto o è poco? La maggioranza dei cittadini penserà che sia tanto, però per un giudizio più ragionato possiamo vedere quanto incassano i partiti (o le loro fondazioni) in altri paesi. In Germania 5,6 euro per abitante, in Spagna 2,8, in Francia 2,4.
A questi possiamo aggiungere il sostegno alla stampa di partito. Sono in complesso poco più di 30 milioni di euro: qualche esempio di testate gloriose e meno gloriose. Rinascita 2,4 milioni, La Discussione 2,5 milioni, Europa 3,5 milioni, La Padania 3,8 milioni, Secolo d’Italia 2,9, L’Unità 6,3 milioni, e via proseguendo con quotidiani veri che stanno in edicola e fogli più o meno clandestini. Anche il “Foglio” di Ferrara, il grande polemista, succhia dalle tasche degli italiani la sua quota: 3,4 milioni all’anno.
Ricordiamo l’art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Per questo si giustifica un concorso pubblico. E dovremmo riflettere sul fatto che oggi più di ieri siamo in grado di valutare quanto possa influire sulla formazione di libere opinioni il controllo del denaro e dei mezzi di informazione. Come con il denaro si possa occupare ogni spazio di comunicazione, come si possa corrompere, dentro e fuori il parlamento, come si possa condizionare il consenso democratico.
Si può comunque migliorare. Con un po’ di maggiore austerità in relazione alla difficile situazione economica. E difatti dalla prossime elezioni si avrà un tagli odei rimborsi elettorali del 30%. Con maggiori vincoli, come ha proposto il PD in propri disegni di legge. Con l’obbligo di adottare uno statuto che assicuri la contendibilità democratica delle cariche e la partecipazione degli iscritti, con la certificazione dei bilanci, per rendere conto ai cittadini delle modalità di impiego, incentivando ad esempio l’utilizzo delle primarie per l’accesso agli incarichi.
Recuperando perciò anche per questa via la finalità così ben individuata dai padri costituenti.
I costi nel territorio
Qual è la dimensione dell’intermediazione politica ai diversi livelli territoriali, comuni, province, regioni? I dati dell’ANCI ci dicono che l’importo per il totale di indennità e rimborsi degli amministratori assomma a 1,6 miliardi di euro, ma 3/5 dell’importo è dovuto alle regioni. Conferma che non è a livello dei comuni che vi sono gli sprechi insostenibili. Anzi bisognerebbe preservare con più cura quella grande scuola di democrazia e di formazione della classe dirigente di un paese che è data dalla esperienza che ogni cittadino può fare nei consigli comunali anche dei piccoli comuni: a contatto con la rappresentanza, la valutazione degli interessi in gioco, le complessità della macchina burocratica. E nel giudicare occorrerebbe considerare quanta dedizione sia richiesta per fare il Sindaco o l’assessore di un comune grande o piccolo che sia: la fatica del fare, di ascoltare, di mediare, di decidere su questioni complesse, il rischio di sbagliare anche in buona fede ma di pagare lo stesso…Un impegno senza orario che da enorme soddisfazioni umane ma ha un costo elevatissimo di tempo, di impegno psichico, di sacrifici odi ogni altro interesse.
C’è un eccesso di intermediazione? I dati delle statistiche ufficiali europee che rendono omogenei i diversi ordinamenti ci offrono questo panorama
Paese Regioni Province Comuni
Italia 21 107 8.094
Germania 22 412 11.993
Inghilterra 37 133 9.434
Francia 26 100 36.680
Situazioni molto differenziate, per le quali naturalmente occorre tener conto del diverso peso demografico, territoriale, della conformazione orografica, delle tradizioni istituzionali.
Tuttavia non è che l’Italia sia scandalosamente fuori media…
Piuttosto appare veramente cospicuo l’insieme di società partecipate dagli enti locali. Sono 5.549 ed il 45% dei comuni risulta partecipare a più di 5 società. A questo dobbiamo aggiungere la presenza di organismi di diritto pubblico, come consorzi, unioni, comunità ecc.
Possiamo permetterci tutto questo? Bisogna dire di no e senza semplicismi bisogna mettere mano ad una coraggiosa riorganizzazione, che faccia salvi i canali di controllo e partecipazione popolare, ma renda più razionale e meno costoso il sistema di governo e di organizzazione della prestazione dei servizi ai cittadini.
Perciò occorre rivedere l’organizzazione delle province. 72 province hanno meno di 500.000 abitanti e 22 meno di 215.000 abitanti, la popolazione di un medio comune. Senza semplicismi certo: parlare di 7 miliardi di euro di risparmi derivanti dall’abolizione delle province significherebbe prevedere il licenziamento di tutto il personale…Però si deve fare una riforma ambiziosa. Io ho proposto ad esempio che la determinazione dei confini provinciali resti in carico alle regioni (sopportandone gli oneri) ma prevedendo che le province diventino enti di secondo grado: il consiglio provinciale formato dai sindaci della provincia. Si risparmia sulle elezioni, sull’intermediazione politica, si legano le funzioni amministrative provinciali al territorio. Si può prevedere un numero minimo di abitanti.
Occorre promuovere un accorpamento di comuni e l’esercizio di funzioni associate. Vi sono esempi molto positivi in questa direzione, anche nel nostro Veneto.
Occorre una drastica semplificazione del sistema delle società partecipate. Il PD ha proposto il contenimento del numero, l’amministratore unico ovunque sia possibile, il contenimento dei compensi, ecc.
Insieme va naturalmente il contenimento e la razionalizzazione delle strutture dello Stato. Sono proposte precise che il PD ha fatto anche in occasione dell’ultima manovra. Un Piano Industriale della Pubblica Amministrazione, l’alleggerimento della struttura periferica dello Stato (è proprio necessaria che in ogni provincia, anche la più piccola ci sia una prefettura, una agenzia delle entrate, ecc.), la razionalizzazione dei Tribunali (una struttura del passato, che non tiene conto di come l’informatica cambia o dovrebbe cambiare l’amministrazione della giustizia e l’accessibilità alle strutture), ecc.
Quanto vale un parlamentare?
Infine il tema su cui si sofferma di più l’opinione pubblica: quanto è giusto pagare un politico? In particolare mi soffermo naturalmente sul tema più specifico: quanto è giusto pagare un parlamentare?
Le risposte alla domanda sono naturalmente le più varie: dovete farlo gratis, come un co.co.co., come un operaio metalmeccanico, quello che guadagnavate nella precedente attività, ecc. Quasi mai naturalmente si riflette sul tema: il compenso a quale qualità del lavoro parlamentare deve corrispondere. Perché se partiamo dell’idea che il lavoro parlamentare è inutile ogni euro è di troppo…
Forse conviene partire da quanto prende un parlamentare, perché sulla stampa compaiono le cifre più disparate. Mi soffermo sui compensi dei senatori, visto che sono parte in causa. Eppure su questo punto la trasparenza esiste: per i cittadini che hanno voglia di sapere e per i giornalisti che volendo scrivere sul tema avrebbero l’obbligo di sapere con precisione. Basta andare sul sito del senato www.senato.it e alla voce senatori si trovano i dati esatti.
A partire dal fatto che il costo annuo per le competenze di ogni tipo di tutti i senatori in carica è di 60 milioni di euro. Un euro all’anno per ogni cittadino. Anche quell’euro va rispettato e considerato, perché poi si aggiungono tanti altri costi, ma forse è bene conoscere l’ordine di grandezza. Di questo stiamo parlando.
Le voci che compongono lo “stipendio” di un senatore sono di tre tipi.
L’indennità: essa ammonta a oggi a circa 5.000 euro mensili per 12 mensilità, al netto di tasse e contributi. E’ tanto? Si rispetto allo stipendio di un operaio, no rispetto a quello di un medio dirigente pubblico. Anzi corrisponde esattamente a quello di un dirigente di seconda fascia dello Stato. Faccio il paragone con lo stipendio di cui godevo nella mia attività professionale. Da vicesegretario genarle della Camera di Commercio di Padova avrei diritto ad un mensile netto di 5.400 euro. Se nel frattempo avessi avuto la normale progressione di carriera e fossi diventato Segretario Generale avrei uno stipendio di 6.900 euro mensili.
C’è una seconda voce, la cosiddetta diaria che dovrebbe coprire le spese di sostentamento fuori dalla propria residenza che ammonta a 3.500 euro mensili e una terza voce il contributo per il supporto dell’attività e rimborso forfettario delle spese generali che assomma a 5.830 euro mensili. Ed è su queste due voci che io penso si debba lavorare con decisione.
Ci possiamo orientare con un confronto tra altri paesi europei. Anche qui sulla stampa sono comparsi i dati più disparati: in alcuni casi si sono pubblicati il loro dei parlamentari italiani e il netto di quelli di altri paesi, oppure non si è tenuto conto dei servizi gratuiti immessi a disposizione, ecc. Una comparazione oggettiva è stata fatta dalla Camera dei Deputati, sui dati ufficiali dei vari parlamenti, commando tutte le varie forme di remunerazione: indennità, rimborsi spese, servizi disponibili, ecc.). Il risultato dei netti mensili è il seguente:
Italia Germania Regno Unito Francia UE
14.300 25.800 18.800 21.600 32.800
Molto diversi da quelli pubblicati sulla stampa, ma come vedremo avremo presto un dato ufficiale ed imparziale. L’ISTAT è stato infatti incaricato di accertare l’insieme delle competenze spettanti ai parlamentari dei 6 maggiori paesi europei, per vincolare il compenso italiano alla media degli altri paesi. Mi sembra una buona soluzione, trasparente, oggettiva ed indipendente dalle valutazioni degli aventi interesse.
Sempre sulla stampa si dà risalto a mancati interventi e rinvii di decisioni. Si dice i parlamentari non vogliono, ecc. Ma anche questo è inesatto. Si dica: la maggioranza non ha voluto, perché il PD e le altre opposizioni proposte precise ne hanno fatte, chiedendo che abbiano effetto immediato.
E’ giusto anche conoscere comunque ciò che è stato fatto. Dal 2007 è in vigore ogni aumento delle indennità, anche quelle legate all’inflazione, nel 2008 è stato introdotto un taglio del 10% e successivamente un ulteriore taglio di 1000 euro mensili. L’ultima manovra ha introdotto una super IRPEF doppia di quella prevista per i dipendenti pubblici. Nell’ultimo quinquennio si è avuta una riduzione delle competenze parlamentari del 15,7% in termini reali.
Veniamo alle proposte del Partito Democratico.
Intanto una diminuzione dei parlamentari: 400 deputati e 315 senatori in luogo di 315 e 630. E’ una razionalizzazione che tiene conto della crescita di altre forme di rappresentanza ad elezione diretta (Regioni e Europa) con competenze rilevanti, ad un diverso ruolo del parlamento nel processo legislativo, ad una crescita delle funzioni di alta amministrazione, ecc. Vi sarà anche un risparmio, in parte minore per le minori competenze dei parlamentari, in parte maggiore per il risparmio sulle spese generali di Camera e Senato. E’ opportuno sapere tuttavia che se guardiamo la classifica della numerosità dei parlamenti in termini di parlamentari per 100.000 abitanti l’Italia si colloca al 22esimo posto su 27 paesi. Se venissero approvate le nostre proposte dalla prossima legislatura saremmo 26esimi su 27 paesi.
Una radicale riforma delle indennità aggiuntive, diaria e contributo di supporto. Così come sono costituiscono davvero un previlegio che si presta ad abusi. Non hanno alcun rapporto con l’attività effettiva. Un conto è passare una o tre giornate a Roma, un conto è investire nell’attività di collegio con sedi, pubblicazioni, convegni, contributi a partiti ed associazioni, un conto è tenersi per sé l’intero contributo. Va eliminata questa iniquità. Perciò proponiamo la piena proporzionalità dell’erogazione della diaria alle presenze in aula e in commissione. Anche in commissione perché spesso il lavoro più importante per la qualità dei provvedimenti viene fatto appunto in commissione. Chi c’è viene pagato, chi non c’è non prende soldi. Insieme l’erogazione della indennità di supporto solo a presentazione di pezze giustificative. La finalità è quella di investire in strumenti di informazione e partecipazione all’attività del parlamentare: se viene fatta se ne fa carico l’amministrazione, se non viene fatta niente soldi. Già sono state eliminate tutta una serie di piccole comodità (barbiere gratuito, ristorante a prezzi popolari, tessere per il cinema, ecc.) che non avevano nulla a che fare con l’attività parlamentare.
Già ho detto che l’indennità sarà legata alle media dei 6 maggiori paesi europei. Si vedrà con ogni probabilità che non si distanzierà molto dall’attuale situazione. Si può fare di più? Penso che in un momento di grave crisi si debba fare di più. Ma lo strumento della solidarietà non può che essere quello fiscale. I redditi elevati, che siano dei parlamentari, dei manager pubblici e privati, dei professionisti, ecc. siano sottoposti (come del resto abbiamo proposto) ad un prelievo straordinario di solidarietà.
Infine abbiamo proposto l’abolizione del vitalizio. Un istituto che aveva la sua ragione d’essere in un contesto diverso, in cui a tutti era garantita una generosa pensione e in cui le carriere politiche parlamentari si sviluppavano in modo diverso, e limitato nel tempo era il numero dei parlamentari che godevano di un vitalizio. E’ un istituto che è stato già modificato: ad esempio oggi occorrono almeno 65 anni ed una intera legislatura effettiva per poterne godere. Una volta poteva partire da 50 e non c’era un minimo. Era pari all’80% dell’indennità e oggi è il 60%. Tuttavia è un istituto superato, di fronte al trattamento pensionistico che avranno tutti i cittadini appare un previlegio sproporzionato. Per cui abbiamo proposto che si introduca esattamente il sistema delle pensioni dei cittadini: metodo contributivo per tutti, tanto versi, tanto ricevi. Se hai già un sistema previdenziale i contributi si aggiungeranno, se no il parlamentare si farà una assicurazione privata.
Uno sguardo alle altre “caste”
Concludendo si tratta di affrontare questo problema spinoso a viso aperto, con un dialogo con i cittadini, difendendo ciò che è giusto difendere per garantire la libertà e l’autonomia del lavoro politico, eliminando ciò che sa di previlegio e tutto ciò che non è legato al miglior servizio da prestare al cittadino.
Anche perché così facendo si ha l’autorevolezza per affrontare le altre “caste” che esistono, sono robuste, e delle quali poco si occupa l’informazione. Faccio solo due esempi.
Si parla molto delle province. Ho detto quello che penso sul tema. Ma perché non ci si occupa di altri livelli territoriali? Ad esempio in ogni provincia, anche la più piccola, esiste la Camera di Commercio. E’ finanziata da una imposta camerale che pesa su tutte le attività economiche, anche le più modeste. Il mondo dell’impresa, che amministra le Camere di Commercio, non pensa che ci sia qualcosa da fare anche qui? Risultano oltre 1800 società partecipate dal sistema camerale, in, ognuna con il suo consiglio di amministrazione, i sui gettoni, la sua sede, il suo direttore, ecc.
Secondo esempio: le banche. Le 11 maggiori banche italiane hanno consigli di amministrazione pletorici: in media 22 consiglieri , senza contare numerosissime società partecipate. Hanno un costo annuo di 68 milioni di euro, esattamente il costo come abbiamo visto di 315 senatori. E’ giusto parlare ed agire sul vitalizio dei parlamentari, ma due banchieri come Geronzi e Profumo se ne sono andati dalle banche che amministravano con una buonuscita in due di 76 milioni di euro. Qui la politica non c’entra, le banche ormai sono amministrate da rappresentanti della finanza e dell’impresa, tra l’altro in un discutibile sistema di scatole cinesi. Né vale il ragionamento “ma questi sono soldi privati”. Sono soldi che vengono estratti dai bilanci delle banche, che perciò fanno pagare di più i loro servizi ai clienti: famiglie, imprese, enti pubblici.
La politica ha bisogno di dignità: dipende anche dal cittadino
Concludo ritornando al cuore del problema: la credibilità della politica, e dentro la politica, la reputazione del lavoro politico. La politica percepita come lo strumento per organizzare il bene comune e non come una casta che difende sé stessa e tutela tutti gli interessi costituiti senza saper indicare un cammino per il futuro. Il populismo, come strada per fingere di rendere semplice ciò che è complesso e come lo strumento che permetto ad ognuno di illudersi e di dire “io non centro sono gli altri che devono cambiare”. Lo sfruttamento della credulità del popolo, che si accontenta di avere sempre qualche nuovo idolo da abbattere, perché non veda la sostanza del potere, che sta fuori dalla politica e che una parte della politica si accontenta di servire. Il diritto del popolo di scegliere il proprio rappresentante, ma anche il diritto del parlamentare di essere giudicato per ciò che fa, per il rigore del proprio lavoro, per l’impegno che ci mette.
E’ difficile per una opinione pubblica smarrita, disorientata impaurita. Ma almeno a livello di militanti vi è una riflessione da fare, un giudizio rigoroso a cui attenersi, una giusta pretesa di cambiamento ma una necessaria difesa del nocciolo fondamentale: la democrazia rappresentativa come strumento di attuazione del bene comune.
Racconta Tina Anselmi nella sua biografia che quando fu eletta in Parlamento vi entrò la prima volta con grande emozione: “ero giunta nel luogo dove si costruisce e si tutela la libertà, che è il dono più grande di tutti”.
E Benedetto XVI portando il proprio saluto al Bundenstag ha ricordato “la mia patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene comune della Repubblica federale di Germania”.
Fare il parlamentare vuol dire questo. Sta a noi non farlo mai dimenticare, con l’esempio concreto della nostra vita, ma sta anche ai cittadini non dimenticarlo e pretenderlo dai propri rappresentanti, piuttosto che abbandonarsi ad una impotente critica generalizzata.
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