7 agosto 2010

Ragioniamo sulla città che vogliamo consegnare ai nostri figli

In questi mesi mi sono limitato a leggere i numerosi interventi che sono apparsi sulle vostre pagine in merito al nodo revamping Italcementi. Oggi, leggendo l’intervento della signora Cinzia Andolfo che suggeriva la riapertura delle cave per garantire lavoro per i prossimi trent’anni, ho deciso di intervenire perché ho il presentimento che molti scrivano solo con l’obiettivo di sostenere il fronte a cui si sentono di appartenere senza però, a mio avviso, affrontare la questione con uno sguardo più lungo di quello dell’oggi.
I lavoratori e i sindacati guardano al problema da un punto di vista che è quello di chi sente oggi minacciata la propria fonte di reddito. La proprietà si preoccupa di individuare le strategie per massimizzare il profitto dell’azienda. I comitati ambientali vogliono ottenere la chiusura quanto più rapida degli stabilimenti sostenendo che minacciano da decenni salute e paesaggio. Tutti spinti ad affrontare la questione con lo spirito del qui e ora. E la politica?
La politica dovrebbe essere la sfera delle decisioni collettive sovrane. Decisioni che devono essere prese con l’obiettivo di renderle definitive, condivise e soprattutto finalizzate alla programmazione del futuro di una città.
Quali sono le reali prospettive che può offrire dal punto di vista lavorativo un settore che non necessità di manodopera qualificata e dove la concorrenza a basso costo delle economie emergenti rende poco competitivi i nostri impianti (pensate all’investimento di Fiat in Serbia…)? Sul serio, per quanti dei nostri figli o dei nostri nipoti pensiamo realistico un futuro come cavatori o operai in un cementificio? Quali sono i vantaggi che possono portarci stabilimenti che vogliono investire non sul lavoro (per quanto ce la raccontino ogni ristrutturazione aziendale è finalizzata al risparmio, e quello maggiore si realizza contenendo gli impieghi in risorse umane) ma sulla possibilità di convertirsi ben presto in impianti in grado di gestire il business principale prodotto dalle società consumistiche, cioè quello dei rifiuti solidi urbani? Perché l’allora sindaco Conte, appena insediato, ha stracciato la variante generale al Piano Regolatore che prevedeva nell’arco di un ventennio la dismissione dei cementifici, in perfetta integrazione con le norme del piano ambientale del parco dei Colli Euganei nel frattempo definito, e che garantiva il tempo di vita agli impianti esistenti oltre a quello necessario per favorire l’emersione di alternative occupazionali credibili?
Io credo che la politica locale abbia il compito difficile di interrogarsi in merito alle questioni sopra esposte, di darsi rapidamente delle risposte superando gli steccati dell’etichetta partitica e soprattutto di tornare a fare quello che da undici anni non fa: governare il territorio programmandone lo sviluppo e disegnando la città che vorremmo consegnare ai nostri figli e ai nostri nipoti, non a chi avrà la possibilità di rieleggerci a fine mandato.

Pierluigi Giaccarello
(lettera inviata al Mattino di Padova il 7 agosto 2010)

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